Abbiamo intervistato Davide, il titolare di Negroneria Genovese, un locale di “copertura” che serve solo Negroni.
Come ti è venuto in mente di aprire una Negroneria?
Il primo locale che ho aperto è stato il Locksmith Secret Bar. Come per ogni locale d’ispirazione speakeasy c’era bisogno di una “copertura”, qualcosa che facesse da filtro. Avevo notato che il Secret Bar, essendo un formato prettamente serale, aveva grosse lacune sull’aperitivo. Inoltre in orario aperitivo la gente vuole il contatto con l’esterno mentre il Locksmith è al chiuso. Così mi sono messo a ragionare con lo staff per capire che idea avrebbe permesso di sfruttare le ore dell’aperitivo e fare contemporaneamente una buona, interessante copertura per il Locksmith.
Una sera siamo andati a fare aperitivo, ci siamo seduti e ho notato che tutti – eravamo cinque – abbiamo ordinato Negroni. A quel punto mi giro verso i ragazzi e dico: “facciamo una Negroneria!”. “Cos’è una Negroneria?” – mi chiedono loro – “Un posto che fa solo Negroni!” – rispondo -. “Abbiamo pochi posti a sedere, il locale è piccolino, concentriamoci su un unico prodotto e facciamo una Negroneria: decliniamo tanti Gin, tanti Vermut, tanti bitter e vediamo se prende.”
Da parte dello staff c’era diffidenza com’è giusto che sia, fare solo un cocktail poteva essere pericoloso. Ma io sono testardo e ho pensato: “a chi non piace non piace, agli amanti del Negroni piacerà.” Presa l’iniziativa facciamo la pagina Facebook e iniziamo a pubblicizzare Negroneria. risultato: esplode e le piccole testate genovesi iniziano a parlare di noi. Siamo riusciti a incuriosire la gente e di lì abbiamo iniziato a crescere. L’idea è stata: “non ti piace il Negroni? Entra, te lo faccio assaggiare secondo i tuoi gusti, se continua a non piacerti lo beviamo noi”. Negroneria può sembrare un locale apparentemente monotematico ma grazie alla nostra conoscenza e allo studio del prodotto siamo riusciti a “convertire” molti a cui il Negroni non piaceva. Abbiamo sempre lavorato in un’ottica orientata al cliente.
L’idea della Negroneria genovese nasce dal Locksmith, ma cos’è esattamente un Secret Bar?
É un locale serale, aperto dalle 22, non viene citato l’indirizzo e si accede solo su prenotazione, per poche persone, massimo una quindicina. Lì facciamo alta miscelazione, cocktail esclusivi, molto più particolari. Per me il Locksmith è più un’ideologia, l’ho sempre considerato la valvola di sfogo della miscelazione per chi ci lavora nel mio settore. In quel contesto è un divertimento per me e lo staff offrire al cliente un drink fatto apposta per lui. É un concetto molto sartoriale. Un laboratorio in cui ci si confronta con i clienti che passano in Negroneria e sostanzialmente vengono filtrati. Diciamo che i nerd della miscelazione pian piano vengono attirati da Negroneria allo Speziale – la nuova copertura del Locksmith – per poi essere filtrati all’interno del Secret Bar. Un processo che figurativamente parlando ricorda un po’ le matrioska.
Adesso il Locksmith ha una nuova “copertura”?
Da poche settimane abbiamo spostato Negroneria Genovese e abbiamo inaugurato lo Speziale. Un nuovo format che va a nozze con Locksmith perché anche qui facciamo sperimentazioni. Lo speziale prende un po’ di Negroneria usando amari e liquori tradizionali; e un po’ del Locksmith attraverso una mixologia più insolita e interessante.
Hai tre locali, ne hai aperto uno nuovo, si vede che fai bene il tuo lavoro. Sono tanti i giovani con il sogno di aprire un posto simile. Che cosa serve per avere la giusta presa in questo mondo?
L’unica cosa che posso dire sulla base della mia storia è che ci sono delle costanti, più di tutte la determinazione e la pazienza, intesa nel senso di riuscire a stare nel proprio locale e applicarsi al cento per cento. La determinazione è fondamentale in un mondo che corre molto veloce, dove ci si stanca in fretta e in cui bisogna riuscire a mantenersi vigili, attenti, a non farsi demoralizzare dalle difficoltà che avviare un locale comporta.
E gli ostacoli più grandi che hai incontrato?
Sicuramente la totale mancanza di collaborazione da parte dei residenti, nel caso di un centro storico. La gente non sa nemmeno chi sei e la generalizzazione è che il bar fa casino. Combatto perennemente contro questo pregiudizio, cerco di farmi conoscere e vengo apprezzato, ma si tratta di anni in cui devi combattere contro esposti dei vigili. Non posso dar del tutto torto a loro; ci sono commercianti del mio lavoro che sono banditi, danno da bere cose indecenti, ed è questo il grosso problema: sdoganare l’idea che i cocktail siano semplicemente bevande per ubriacarsi. Bisogna far passare il concetto che il cocktail, se fatto come si deve, è una miscelazione con nulla da invidiare ad altri mondi. Quindi penso che l’ostacolo più grande sia farsi conoscere per le proprie capacità, ma penso sia una difficoltà presente in tutti i lavori all’interno del nostro paese.
E parlando di cocktail, come siamo messi rispetto ad altri paesi?
Inevitabilmente, soprattutto rispetto ai paesi anglosassoni e asiatici che stanno crescendo in questo settore a una velocità spaventosa, siamo indietro. Lo siamo tradizionalmente perché abbiamo dei colossi della consumazione all’interno del nostro paese, il vino più di tutti e la birra che è riuscita a imporsi sul mercato in maniera eclatante. Questo contesto in parte rallenta il mondo della mixologia. A questo si aggiunge una caratteristica tipica di noi italiani: considerare indiscutibile la nostra tradizione. Siamo indietro sui consumi, ma dal punto di vista lavorativo gli italiani sono tra i migliori in questo settore.
Per crescere dovremmo prendere spunto dal mondo della birra artigianale e da come questo è cresciuto. Rispetto a prodotti potenzialmente sostitutivi come il vino e la birra, il vantaggio dei cocktail è la completa plasmabilità sul cliente. In questo modo è possibile creare qualcosa che quasi sicuramente piacerà al cliente. É difficile sbagliare una volta che conosci i gusti del cliente, ma questo comporta un buon rapporto con il cliente. Dal punto di vista commerciale invece è fondamentale trasmettere qualità del prodotto e riuscire ad eliminare l’aurea di prodotto estremamente alcolico dei cocktail.
Un altro passaggio che potrebbe aiutarci è l’abbinamento con il cibo. Noi italiani ci muoviamo dove c’è cibo. Se ti propongo un Daiquiri o un Moijito con una grigliata, storgi il naso e pensi che con la carne ci stia bene un rosso. Però quando vai al ristorante brasiliano a mangiarti la Picanha te la servono con il Caipirinha. Lo stesso accade con il Margarita nella tradizione messicana. Sono tutte associazioni di tipo culturale.
Visto il successo che la tua attività ha avuto a livello locale, hai mai pensato di avviare un franchising?
Mi è stato chiesto, soprattutto è stata una scelta. Quando ho visto che Negroneria aveva avuto un impatto ho deciso di registrare il marchio a livello europeo. Mi è stato chiesto dal nord Italia, soprattutto Milano e Torino e penso sarebbe fattibile. Il vero problema è che un rapporto così stretto con la clientela e la personalizzazione richiedono un training lungo e accurato ai dipendenti che potrebbe non bastare a riprodurre la qualità di Negroneria Genovese anche altrove. Trasformando una cosa in un franchising si rischia di snaturare l’aspetto umano che ti rende particolare, è molto difficile.
Prima accennavi alle difficoltà che avere il locale in un centro storico comporta. I locali spesso entrano in conflitto con i quartieri in cui si trovano ed è abbastanza paradossale. Ma che ruolo dovrebbero avere i locali, oltre ovviamente all’aspetto commerciale, nel contesto urbano?
Hanno il ruolo fondamentale di presidio. Il grosso problema nella maggior parte delle situazioni è che la gente ha la memoria corta. Negli anni ottanta queste zone del centro storico erano molto difficili, zone di spaccio e rapine prevalentemente. Negli anni novanta in occasione delle Colombiadi genovesi sono arrivati una serie di finanziamenti. Si sono fatti parecchi investimenti su Genova e in queste zone del centro sono arrivati imprenditori artisti – potevano essere attori come Luca Bizzarri o insegnanti di teatro – con il desiderio di riqualificare la zona attraverso club per fare insegnamento di video ripresa o scuola di cinema con locali annessi simili ai bar. In seguito a questo processo hanno preso piede nei vicoli i bar che hanno iniziato a pulire la zona. Il valore degli immobili è cresciuto e abitare nel centro storico è diventato un lusso. Poi c’è stato il G8 e per una serie di motivi dal 2005 al 2013 c’è stato un netto peggioramento nella vita dei vicoli.
Negli ultimi anni ci stiamo riprendendo anche grazie ai cocktail bar, primo su tutti Les Rouges, uno dei primi a offrire miscelazioni serie, da vero paese anglosassone. Di lì in poi si sono aperte le porte ad altri locali e quasi tutte le nuove aperture sono andate nella direzione della qualità. La nostra e quella di moti altri locali della zona è una gestione da presidio vero: usciamo e controlliamo la zona, andiamo a togliere e siringhe dalle piazzette. Non spetterebbe a noi, ma se non dipendesse da noi sarebbe un processo troppo lento o addirittura inesistente.
Genova vive in parte di turismo, ma meno di altre città italiane rispetto alle sue potenzialità. Cosa trova in questa città chi la visita? E perché si dovrebbe scegliere proprio di venire a Genova?
La gente qui trova l’interesse nello scoprire la città. Genova va apprezzata una volta che ci si è dentro. Gli scorci che ci sono non li conoscerai mai da una locandina, ne le sue particolarità. Questo per il fatto che è ancora vera. Un turista veneto in visita a Genova qualche anno fa mi disse: “a differenza di Venezia questa è ancora una città”. Il nostro centro storico respira ancora di vita vera, nel buono e nel brutto, ed è il motivo per cui Genova andrebbe vissuta, non vista.
Per chiudere, le misure attuali anti Covid hanno un impatto abbastanza pesante sulle attività come la tua. Cosa pensi a riguardo?
Comprendo la necessità di imporre delle restrizioni ma non sono d’accordo sul tipo di restrizioni imposte. É più facile per uno stato, per una regione o per un comune imporre coprifuoco, chiusure anticipate, limitazioni, piuttosto che far rispettar le regole. Trovo che la cosa più stupida e inutile di tutte sia l’imposizione oraria della chiusura anticipata per il semplice motivo che mi posso infettare alle quattro del pomeriggio come alle tre di notte.
La verità è che l’assembramento non è dato nell’ora notturna e sono sicuro che se chiudo la saracinesca nel week end ci saranno orde di ragazzi in piazza anche se il locale è chiuso. Il problema è che applicare le norme a ogni città, per ogni aspetto, in ogni luogo è troppo difficile o troppo dispendioso, e si decide di chiudere o di stabilire restrizioni. Soprattutto qui a Genova, dove rispetto ad altre zone del nord abbiamo una cultura serale molto importante, ci troveremo in serie difficoltà.
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