Definire un intero genere con un album è possibile? Probabilmente no, ma si può andare tanto, tanto vicino.
Il genere di cui parlo è la Techno, l’album III di Dusty Kid. I puristi del genere non me ne vogliano. Cito un ragazzo cagliaritano con un disco del 2013, non un mostro sacro della scena di Detroit anni 90. Cercherò di argomentare al meglio.
III è un album che trascende certi canoni e dogmi della Techno. Supera determinate imposizioni date da quella che è la “Big Room Techno” dei grandi festival e arriva dritto in faccia. É un album che può essere ascoltato da soli, con gli auricolari nelle orecchie come al grande rave.
Dentro ci troverete quella grande cassa in quattro che tanto fa muovere i piedi, percussioni orchestrali (menzione d’onore ai timpani in Doom, traccia 6) e un discreto rumore di fondo, non fastidioso ma organico, indice delle macchine analogiche e dei nastri magnetici con cui è stato prodotto l’album. Serve altro? No.
Quindi III è l’album perfetto? No, ma c’è qualcosa di decisamente viscerale in esso. Non è lì per starti simpatico né per strizzare l’occhio ad aperitivi in bar alla moda. È lì per fare un lavoro, e quel lavoro lo fa decisamente bene.
La Techno affonda le radici nella black music di Detroit, nel disagio e nella libertà sociale della Berlino post muro, nell’infinita bellezza di Parigi dei primi 2000. Limitarla e distillarla a un unico album è esagerato, impossibile, ma c’è qualcosa che si nasconde nella cassa e nelle linee di basso di III. Qualcosa che muove anima e corpo, difficile da spiegare ma che intanto non ha bisogno di parole perché sa benissimo spiegarsi da sola.
Ore 03:00. Datemi un Gin Tonic, luci strobo, un impianto audio degno e Omega X (traccia 17 dell’album) ed io sarò felice.
Giulio Centis
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